Una settimana dopo la morte improvvisa di mio marito, che aveva solo 35 anni, mi sono trovata a scorrere le sue email, cercando risposte o almeno un conforto. Inaspettatamente, mi sono imbattuta in un abbonamento a un servizio di tracciamento della posizione, a cui si era iscritto di nascosto da mesi. La curiosità ha preso il sopravvento e, utilizzando una vecchia password, sono riuscita ad accedere al suo account.
Quello che ho visto mi ha tolto il fiato: il servizio segnalava la sua posizione attuale, non lontano da casa nostra.
Con il cuore in gola e una tempesta di emozioni, ho preso qualche minuto per raccogliere il coraggio, poi sono salita in macchina e ho seguito il segnale. Mentre mi avvicinavo, sullo schermo del telefono è comparsa improvvisamente una finestra di chat: un messaggio, accompagnato dalla foto di una ragazza. Il testo diceva: “Sei ancora lì? Cosa dobbiamo fare ora?”.
Poco dopo, un’altra risposta è apparsa nella conversazione: un selfie. Ma non era lui.
In quell’istante il mio stomaco si è chiuso in un nodo di angoscia. Qualcuno aveva hackerato il suo account. Un’ondata di emozioni mi ha travolta: la speranza, per un attimo accesa, si è spenta lasciando spazio alla consapevolezza amara di una perdita definitiva.
Quell’esperienza ha aggiunto un nuovo strato di dolore alla mia sofferenza, un confronto brutale con l’illusione e la cruda realtà della perdita.