Ero immersa nel mio audiolibro di fantascienza, cercando di ignorare la turbolenza e il ragazzo accanto a me che sospirava drammaticamente ogni volta che sfioravo il suo gomito.
Ero concentrata nel seguire la trama quando ho sentito un leggero strattone alla manica.
Un bambino, non più grande di quattro anni, con gli occhi arrossati e i capelli arruffati. Indossava una felpa blu, troppo grande per lui, e stringeva una copertina contro il petto.
L’ho guardato, confusa, proprio mentre si arrampicava su di me e si accoccolava nel mio grembo come se l’avesse fatto da sempre. La sua testolina ha trovato il posto perfetto tra il mio braccio e il fianco, e ha sospirato. Un sospiro tranquillo, diverso da quello del ragazzo drammatico accanto a me. Un sospiro di sollievo. Di riposo.
Sono rimasta immobile, aspettando che qualcuno venisse a prenderlo, che una voce dicesse “Eccoti!” o che un’assistente di volo lo riconoscesse e lo riportasse al suo posto. Ma non è successo nulla. L’assistente di volo è passata accanto a noi, lo ha guardato con dolcezza e ha proseguito.
Ho pensato di chiedere dove fossero i suoi genitori, ma lui aveva già gli occhi chiusi, respirando con quella calma che solo i bambini profondamente stanchi possono avere. E non ho avuto il cuore di muovermi.
Ho guardato intorno. Alcune persone ci osservavano con una miscela di curiosità e tenerezza, ma nessuno sembrava preoccupato. Nessuno si è alzato. Nessuno lo ha chiamato per nome. Nessuno sembrava nemmeno notare che mancava un bambino.
Così l’ho abbracciato.
Per il resto del volo, lui non ha detto una parola. Dormiva profondamente, come se dopo tanto tempo potesse finalmente farlo senza paura. Continuavo ad aspettare che qualcuno venisse, che si accendesse una luce di allarme, che almeno sentissi il suo nome all’altoparlante. Ma nulla.
Quando l’aereo è atterrato e sono iniziati i movimenti frenetici dei passeggeri alla ricerca dei loro bagagli nei compartimenti, il bambino dormiva ancora. Lo guardavo, senza sapere bene cosa fare, con una miscela di tenerezza e sconcerto.
Alla fine, ho parlato alla donna seduta dall’altra parte del corridoio.
— Mi scusi — ho detto, abbassando la voce per non svegliare il bambino —. Sa dove sono i suoi genitori?
Lei mi ha guardato, perplessa, con un’espressione strana.
— I suoi genitori? — ha ripetuto —. Pensavo che fossi tu sua madre.
Sono rimasta senza parole. Ho guardato di nuovo il bambino, che continuava a dormire, tranquillo, come se appartenesse lì. Come se mi avesse trovato per un motivo.
E in quel momento, con la sua manina aggrappata al tessuto della mia camicia, mi sono chiesta se forse, in qualche modo che non comprendevo, anche lui pensasse lo stesso.
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